Il talento era una unità di misura di massa in uso nel mondo antico, e per estensione indicava una unità di valore, riferita solitamente all’argento. Possederne significava essere perlomeno benestanti. Possederne molto significava essere ricchi. Le successive estensioni del termine lo hanno condotto fino a noi nei suoi significati di volontà, inclinazione, predisposizione (cfr. Treccani). Ora; checché ne dicano alcuni, essere ricchi non è il più delle volte una condizione sufficiente ad assicurarsi una vita di successi e di agio. La ricchezza occorre anche saperla investire, nonostante rimanga valido quel che disse Totò (“I soldi non fanno la felicità. Figuriamoci la miseria!”).

E infatti, tornando al viaggio semantico del termine, Treccani ci informa che l’uso attuale che facciamo della parola deriva dalla parabola dei talenti narrata nel Vangelo secondo Matteo. Un signore parte per un viaggio e affida i suoi talenti ai servi. Al primo ne lascia cinque; al secondo due; al terzo un talento. I primi due servi sfruttano e investono la somma affidata loro, raddoppiandone l’importo; il terzo decide di conservare il talento ricevuto e lo sotterra. Quando il padrone tornerà, avrà parole di elogio verso i primi due servi e di recisa condanna verso il comportamento dell’ultimo. In buona sostanza, il racconto ci ricorda che il modo migliore di dare valore al talento è, come dicevamo, usarlo.

Questioni più o meno soprannaturali

Torniamo ai giorni nostri: torniamo al talento come volontà e predisposizione. E riflettiamoci per un attimo perché ancora oggi, specialmente in Italia, quando si parla di talento in rapporto alle arti e al lavoro creativo sembra sempre che si stia parlando di una sorta di magia e di una serie di doti che “o ce le hai o no ce le hai”. Personalmente, sono cresciuto sentendomi ripetere fino all’esaurimento nervoso che con certe abilità ci devi nascere. Che sì, certe cose puoi pure studiarle ma non è la stessa cosa. Concetto peraltro profondamente classista, ma lasciamo perdere.

Siamo troppo spesso inconsciamente abituati a ritenere che l’opinione altrui sia, laddove difforme dalla nostra, una lesione al nostro sistema di pensiero. E dunque, ogni volta che parlo di studiare la musica, ogni volta che accenno al lavoro dello scrittore; ogni volta che associo all’arte e alla creatività concetti relativi alla sfera fabbrile dell’applicazione… apriti cielo: vengo tacciato più o meno immediatamente di essere uno che intenda negare il talento (una persona mi ha detto recentemente che sembra che io voglia “ammazzarlo”, il talento). Sicuramente il mio campione di indagine è tutto sommato risicato e nondimeno mi sono fatto l’idea che il Paese in cui vivo e lavoro abbia un consistente limite culturale: la percezione di certe abilità come frutto di una sorta di benedizione divina o più semplicemente del fatto che “ci sei nato e basta”.

Con un atteggiamento decisamente snob, fino a poco tempo fa intendevo una tale percezione come semplice prodotto di ignoranza popolare e superficialità. Mi pareva assurdo che non fosse cristallino il fatto che, per esempio, Michelangelo avrebbe potuto sì avere tutta l’ispirazione di questo universo ma non avrebbe affrescato la Sistina se non dopo essersi fatto un mazzo così: studiando anatomia e panneggi, passando ore a preparare i suoi colori, documentandosi sulle sacre scritture. Adesso che sono (forse) meno snob, ho idea che anche certe affermazioni siano frutto di cultura, di una visione del mondo profondamente radicata e difficile da modificare.

Genio (cit.)

Facciamoci aiutare nuovamente dall’enciclopedia Treccani (qui la citazione completa):

Il Genius era, per gli antichi Romani, una divinità pertinente al culto domestico. In origine rappresentava la virtù generativa dell’individuo di sesso maschile ed era concepito quale suo nume personale. […] I Romani erano propensi ad attribuire al genius (come, talora, i Greci al demone) specialmente quegli atti in cui sembrava si manifestassero funzioni superiori alle normali capacità dell’individuo. Di tali funzioni la più tipica appare la creazione artistica; onde il passaggio alla concezione del genius come organo dell’arte e in genere di ogni attività eccezionale. […] (Il genio) risorse tra 17° e 18° sec. insieme con quello della irrazionalità e sentimentalità dell’arte. Per I. Kant il g. era la facoltà delle idee estetiche, creante con spontaneità naturale i modelli dell’arte…

Insomma, il genio. Al netto dell’accezione di persona eccezionale nel suo campo, l’idea classica del genio, importata nel Romanticismo quale disposizione dell’anima e fonte dell’ispirazione, pare essersi mescolata all’idea di talento, di fatto fondendosi con essa. Dopo duecento anni sembra che, nonostante tutto, l’eredità di quell’idea sia ancora ben presente nel mondo contemporaneo.

Ora, seguite questo paradossale ragionamento: a me sembra – ripeto, a me sembra – che la sedimentazione di questa “credenza” si sia nel corso di due secoli e più radicalizzata fino ad inglobare artisti e creativi in una bolla talmente eterea da rendere la loro attività sempre più difficilmente assimilabile al “troppo terreno” concetto di lavoro. Dove sta il paradosso? Sta nel fatto che le qualità ultraterrene dell’artista/creativo sono diventate agli occhi di tanti difficilmente misurabili nei termini di produzione di beni e servizi. E inoltre: si è finito col pensare all’artista/creativo come ad una specie di mago capace di far apparire dal nulla la sua opera. In sintesi: l’artista non viene percepito come lavoratore e il suo lavoro non è percepito come tale. E questo è un bel problema, da sempre sottovalutato e di cui si è tornato a parlare nell’ultimo anno e mezzo, dopo che abbiamo potuto constatare (per l’ennesima volta) che i comparti produttivi più trascurati nel nostro Paese sono quelli relativi ai mestieri dell’arte.

Un bel problema perché, come scrive Isabella De Silvestro su The Vision: “Una delle categorie professionali più stereotipate è sicuramente quella degli artisti: bohémiens travolti dal turbine delle emozioni, eccentrici in contrasto con le convezioni sociali e il potere costituito, misteriosi animi tormentati. Questa visione, tanto cinematografica quanto poco aderente alla realtà, può apparire romantica e ammaliante, ma ha il grande difetto di danneggiare una categoria, quella dei lavoratori del settore artistico e culturale, che ogni giorno deve fare i conti con precarietà e sfruttamento. Il prodotto artistico, al pari di tutti gli altri prodotti sul mercato, infatti, è frutto di studio e lavoro costanti. Se negare l’origine creativa di un prodotto artistico ne sminuirebbe l’unicità – nessuno vuole paragonare una pièce teatrale ad un elettrodomestico – negare all’artista lo status di lavoratore ne compromette la dignità. Infatti, questa visione romantica del mondo dell’arte e della cultura non si limita a influenzare l’immaginario comune, ma ha forti ripercussioni sull’importanza attribuita a tali settori dalle istituzioni che hanno il compito di regolamentare i compensi e le condizioni lavorative degli artisti“. Alcuni fra i quali hanno sentito il legittimo bisogno di fare ancora una volta presente la vera natura della loro attività in questo video, circolato per un bel po’ nella primavera estate del 2020.

Curioso e preoccupante che occorra ancora puntualizzare certe cose. Anche perché tanti artisti di enorme caratura le hanno già ripetute spesso. Tanto per fare un nome solitamente associato all’ispirazione irrazionale e romantica, Nick Cave ha più volte ribadito il concetto: “L’ispirazione non è il fuoco sacro che scende dal cielo, è un bisogno che va alimentato. Per questo vado in ufficio ogni mattina a cercarla – nessuna distrazione, solo una tastiera e una scrivania (non è vero: mi sa che in ufficio Nick Cave ha anche un pianoforte Steinway [NdA])”. O ancora, Mark Knopfler (l’illustrazione qui sotto è mia e la citazione l’ho presa dal suo profilo FB ufficiale: qui l’intervista completa da cui è stata estratta):

O ancora, Ennio Morricone (anche in questo caso, illustrazione mia da questa intervista):

Sono parole sulle quali si può sicuramente discutere, per carità. E tuttavia siamo nel 2021: dovremmo finalmente avere acquisito una certa consapevolezza rispetto ad alcuni concetti, ma…

Ho visto molte persone incredule per i 120 euro chiesti da un collega per la realizzazione di un’illustrazione promozionale. Ne ho viste poche gridare allo scandalo per i 45 euro (perfettamente legittimi, sia chiaro) chiesti dall’idraulico per un sopralluogo relativo al guasto di un rubinetto. “Tanto che ci metti, a farla? Disegni così bene!”

Siamo sempre là e da là converrà che al più presto ci schiodiamo se non vogliamo rimanere nel fantascientifico loop in cui artisti e creativi vengono glorificati nelle loro abilità e contemporaneamente vilipesi nella loro richiesta di poterle usare per campare.

Per concludere

Adesso facciamo un ultimo sforzo e riprendiamo le definizioni di talento così come le abbiamo descritte:

  • Volontà: significa che anche se è stato lo Spirito Santo a fornirti le tue abilità, il fatto che tu le usi dipende dalla tua determinazione a farlo. E la determinazione a fare le cose comporta solitamente… lavoro.
  • Inclinazione: significa che ti piace andare in una certa direzione. Significa che guardi con interesse alcune cose e altre no. Qualunque sia la direzione che preferisci, non percorrerai alcuna strada, se non ti metti a camminare.
  • Predisposizione: ok, se non è stato lo Spirito Santo magari è la conformazione del tuo cervello o chissà che altro. La carte che hai non modificano le regole del gioco: se sei predisposto significa che puoi farlo più facilmente di altri; che a parità di studio otterrai risultati migliori. Non significa che puoi farlo di punto in bianco e in maniera perfetta (poi può anche capitare, eh) senza lavorare duro.

Questo articolo finisce qui. Per chi ha avuto la pazienza di leggerlo, ecco una bonus track in cui Malcom Gladwell sintetizza piuttosto bene molti fra i concetti di cui abbiamo parlato. Alla prossima.